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Recensione di Alessandra Micheli per "Quando il delitto è arte"

già pubblicata sul blog Les fleurs du mal


Tempo fa, molto tempo fa, lessi un saggio che mi diede una strana emozione una sorta di complesso emozionale difficile e ingarbugliato sospeso tra fascino e repulsione. Era di un grande artista, discusso ma famoso all’epoca un certo Thomas de Quincey. Scrittore, giornalista traduttore nato a Greenheyes nel 1785 fu originale, dissacrante e molto controverso, per quell’epoca cosi pudica come fu il vittorianesimo. Famosi restano, spero li conosciate, i suoi molteplici lavori dai titoli inquietanti come le confessioni di un mangiatore di oppio e…l’assassinio come una delle belle arti. Si avete capito bene.


Il nostro poliedrico scrittore sostenne, provocatoriamente, che anche l’atto più esecrabile della società poteva avere un fine anche estetico. 4Si trattava, quindi di raccontare e analizzare questo atto contro natura anche nella sua volontà di rendere, l’omicida una sorta di deus ex machine, dotato di una sua visione dell’arte totalmente finalizzata a cogliere l’attimo supremo, quello in cui la vita sfugge e si ricongiunge in qualche strana dimensione spettrale.

E non per una conseguenza naturale, ma per un atto volontario.

Uccidere poteva essere paragonato alla sensazione orgasmica di chi su tela trasporta la sua visione della vita.

Fu una presa di posizione sconvolgente.



Seppur dotata poi di un certo humor nero, molto british, De Quncey collegando l’omicidio a una presa d posizione che intendeva “manipolare” a proprio piacimento la materia umana, spiegava anche la fascinazione che lo stesso suscitava sulle persone.

E per quanto mi creava una sana repulsione, scontrandosi con la mia etica e perché no, con la morale, non potevo negare che il saggio metteva anche in luce quella voglia un po’ voyeuristica che ha da sempre contraddistinto la morte, che sia omicidio di stato o incubo partorito dalla mente umana per nulla lineare.

E oggi come mai viviamo in un epoca in cui i social e la tecnologia costantemente ci informa dei dati scabrosi dei delitti, mettendo in luce come noi siamo, in fondo avidi di particolari come se assistessimo a una strana mostra o rappresentazione.

Pur portando alla luce, quindi questa morbosità di fronte all’atto peggiore per la civiltà, atto per cui secondo Hobbes è nato lo stato, quasi nessun autore si è potuto concentrare su questo punto.

Utile non solo ai fini della trama, ma anche per porre in evidenza gli assunti culturali e sociali propri di un ambiente preciso.


Pochi tranne Tiziana Viganò.

Nel suo giallo Quando il delitto è arte, l’autrice affronta dal punto di vista narrativo, le stesse suggestioni che tormentarono forse, mi piace pensarlo, De Qyuncey: oltre alla malattia mentale, oltre all’evidente volontà distruttiva dell’assassino verso un mondo che non riconosce suo, può esserci, dietro all’omicidio una latente volontà estetica?

Sicuramente deviata, com’è deviato chi si sostituisce a dio per provare l’ebbrezza del sommo potere.

Ma che in fondo spersonalizza cosi tanto l’oggetto delle sue perverse fantasie da renderlo simile alla creta modellata, e alla tela bianca, pura dissacrata dal colore?


L’omicidio qua tenta di immortalare la bellezza. Tenta di frenare il tempo che fugge. Non è solo vendetta e voglia di rivalsa. C’è un evidente, malato piacere nella rappresentazione di un ideale “estetico” che si sposa in modo malsano con il reato.

Il killer vuole purificare le vittime fino a renderle non più pericoli, persone con una propria anima, personalità o ossessione, ma semplici e innocui pezzi di una mostra eterna e immutata.


E’ questa la forza del libro.

Seppur i gialli si occupano di indizi e di dare una sorta di spiegazione bonaria

di un male reso banale, la Viganò comprende come le pulsazioni malate che portano alla volontà di dominio estremo (togliere la vita e ergersi a divinità) forse nascondono un dramma ancor più profondo: la volontà di rendere il male arte per vincere, seppur in modo apparente, ciò che ha nutrito lo stesso.

E’ cosi che la vittima diventa carnefice e sublima il suo dramma di sconfitto tramite una composizione che, in modo contorto, redime una società che produce e contribuisce costantemente a creare le basi per il caos.

Come dire è la società in fondo che forma il serial killer, oltre la genetica e forse la predisposizione alla malattia.


E’ tutto qua, in questo meraviglioso libro, sempre più vicino a quello che oggi è po


ssibile definire il giallo sociale.


Una sorta di escamotage, il delitto, per parlare di altro affrontando temi importanti e scomodi.


Tutto il marcio si riversa nei protagonisti del libro: nel killer frutto di un mondo malato, nel capitano Adelio che in questo viaggio nell’abisso ne resta, inevitabilmente e inesorabilmente toccato.


Un libro intenso, capace di emozionare ma anche di donare il brivido più intenso che ogni lettore desidera: quello di comprendere come la falsificazione necessaria per un romanzo, a volte si intreccia indissolubilmente con la realtà.



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