"Ulysses" di Alfred Tennyson (1833)
Una poesia immortale che riecheggia l'eroe di Omero e di Dante nel momento in cui si prepara all'ultimo viaggio verso l'ignoto per la sete di conoscenza infinita. Ripresa nel film di Peter Weir "L'attimo fuggente" (1989), interpretato da Robin Williams
di seguito il testo originale

Serve a poco che un re ozioso, In questo spento focolare, presso queste sterili rupi, Consorte di una donna anziana, io misuro e ripartisco Imparziali leggi a una stirpe selvaggia, Che ammucchia, e dorme, e si nutre, e non mi conosce.
Non posso fare a meno di viaggiare: berrò Ogni goccia della vita: tutto il tempo ho assaporato Molto, molto ho sofferto, sia con coloro Che mi amavano, che solo, sulla riva, e quando Con tumultuose correnti le piovose Iadi Agitavano l’oscuro mare. Io son diventato un nome; Per aver sempre vagato con cuore affamato Molto vidi e conobbi; città d’uomini E costumi, climi, consigli, governi, E non di meno me stesso, ma onorato da tutti; E assaporai il piacere della battaglia coi miei pari, Lontano sulle risonanti pianure della ventosa Troia. Io son parte di tutto ciò ch’incontrai; Eppure ancor tutta l’esperienza è un arco attraverso cui Brilla quel mondo inesplorato i cui confini sbiadiscono Per sempre e per sempre quando mi muovo. Com’è sciocco fermarsi, finire, Arrugginire non lucidati, non brillare nell’uso! Come se respirare fosse vivere! Vita ammucchiata su vita Sarebbero tutte troppo poco, e di una sola a me Poco rimane: ma ogni ora è salva Da quell’eterno silenzio, qualcosa di più, Un portatore di cose nuove; e vile sarebbe Per tre soli anni ammucchiare e accumulare io stesso, E questo grigio spirito bramare nel desiderio Di seguire la conoscenza come una stella cadente, Oltre il limite più estremo dell’umano pensiero.
Questi è mio figlio, il mio caro Telemaco, Al quale io consegno lo scettro e l’isola - Da me molto amata, che discerne come adempiere Questo lavoro, con lenta prudenza per addolcire Un popolo rozzo, e attraverso soffici gradi Sottometterli all’utile e al bene. Egli è il più irreprensibile, concentrato nella sfera Dei comuni doveri, conveniente a non cadere In funzioni di fragilità, e pagare Confacenti preghiere agli dèi della mia casa, Quando sarò partito. Egli fa il suo lavoro, io il mio.
Lì giace il porto; il vascello gonfia la sua vela: Là si oscurano i neri, estesi mari. Miei marinai, Anime che hanno faticato, e lavorato, e pensato con me Che sempre con un allegro benvenuto accolsero Il tuono e la luce del sole, e opposero Cuori liberi, menti libere – voi ed io siamo vecchi; La vecchia età ha ancora il suo onore e la sua fatica; La morte chiude tutto: ma qualcosa prima della fine, Qualche lavoro di nobile natura, può ancora essere fatto, Uomini non sconvenienti che combattevano contro gli Dèi. La luce comincia a scintillare dalle rocce: Il lungo giorno affievolisce: la lenta luna si innalza: il mare profondo Geme attorno con molte voci. Venite, amici miei, Non è troppo tardi per cercare un mondo nuovo.
Spingetevi al largo, e sedendo bene in ordine percuotete I sonori solchi; perché il mio scopo consiste Nel navigare oltre il tramonto, e i bagni Di tutte le stelle occidentali, finché io muoia. Potrebbe succedere che gli abissi ci inghiottiranno: Potremmo forse toccare le isole felici, E vedere il grande Achille, che noi conoscemmo. Anche se molto è stato preso, molto aspetta; e anche se Noi non siamo ora quella forza che in giorni antichi Mosse terra e cieli, ciò che siamo, siamo; Un’eguale indole di eroici cuori, Fiaccati dal tempo e dal fato, ma forti nella volontà Di combattere, cercare, trovare, e di non cedere.
It little profits that an idle king,
By this still hearth, among these barren crags,
Match'd with an aged wife, I mete and dole
Unequal laws unto a savage race,
That hoard, and sleep, and feed, and know not me.
I cannot rest from travel: I will drink
Life to the lees: All times I have enjoy'd
Greatly, have suffer'd greatly, both with those
That loved me, and alone, on shore, and when
Thro' scudding drifts the rainy Hyades
Vext the dim sea: I am become a name;
For always roaming with a hungry heart
Much have I seen and known; cities of men
And manners, climates, councils, governments,
Myself not least, but honour'd of them all;
And drunk delight of battle with my peers,
Far on the ringing plains of windy Troy.
I am a part of all that I have met;
Yet all experience is an arch wherethro'
Gleams that untravell'd world whose margin fades
For ever and forever when I move.
How dull it is to pause, to make an end,
To rust unburnish'd, not to shine in use!
As tho' to breathe were life! Life piled on life
Were all too little, and of one to me
Little remains: but every hour is saved
From that eternal silence, something more,
A bringer of new things; and vile it were
For some three suns to store and hoard myself,
And this gray spirit yearning in desire
To follow knowledge like a sinking star,
Beyond the utmost bound of human thought.
This is my son, mine own Telemachus,
To whom I leave the sceptre and the isle,—
Well-loved of me, discerning to fulfil
This labour, by slow prudence to make mild
A rugged people, and thro' soft degrees
Subdue them to the useful and the good.
Most blameless is he, centred in the sphere
Of common duties, decent not to fail